Con sentenza n. 27742, depositata oggi 6/10/2020 (in calce), la IV sezione della Corte di Cassazione ha dichiarato inammissibile, per genericità dei motivi, il ricorso proposto da un’imputata avverso una sentenza di primo grado, confermata da quella di appello (c.d. “doppia conforme”).

In particolare, i Giudici di legittimità hanno ritenuto sorretta da “argomenti logici ineccepibili” l’impugnata sentenza, che aveva evidenziato l’inverosimiglianza della giustificazioni addotte dall’imputata in ordine all’addebito di avere effettuato, in quasi quattro mesi, telefonate internazionali in Marocco col cellulare aziendale, per scopi personali.

La stessa aveva infatti sostenuto lo scambio tra il telefonino fornitole dalla RAI  e quello di suo marito, ma tale versione era stata ritenuta non credibile dai giudici di merito, in considerazione dell’improbabilità che l’imputata non se ne fosse mai accorta in detto lasso temporale e dell’immediata cessazione delle telefonate internazionali, subito dopo la presentazione della denuncia.

In sostanza, concludono gli Ermellini, l’impugnato provvedimento “non presenta profili di illogicità o contraddittorietà”.

La Corte reputa poi tardiva la censura relativa al mancato riconoscimento dell’attenuante dell’integrale risarcimento del danno, giacché non dedotta nei motivi di appello e pertanto non esperibile per la prima volta in Cassazione.

Viene anche disatteso il motivo relativo al mancato riconoscimento del minimo della pena, non demandatile al giudizio di legittimità, se non nei limitati casi in cui la pena sia esitata dal mero arbitrio o dal ragionamento illogico del giudicante o da una motivazione insufficiente.

All’inammissibilità del ricorso consegue anche l’impossibilità di dichiarare la prescrizione del reato e la condanna alle spese e di una somma in favore della Cassa delle ammende.


Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 15 settembre – 6 ottobre 2020, n. 27742
Presidente Bricchetti – Relatore Amoroso

Ritenuto in fatto

1. Con il provvedimento in epigrafe, la Corte d’appello di Roma ha confermato la sentenza emessa in data 18/11/2014 dal Tribunale di Roma con cui Ge. Vi. è stata condannata alla pena di mesi otto di reclusione per il reato di cui all’art. 314 comma 2, cod. pen, così riqualificata l’originaria imputazione, perché in qualità di dirigente Rai, avendo la disponibilità di una utenza telefonica mobile per motivi di servizio, consentiva ad altri di farne indebito utilizzo per l’importo fatturato globale di 3.978,00 Euro dal mese di dicembre 2011 al mese di marzo del 2012.
2. Tramite il proprio difensore di fiducia, Ge. Vi. ha proposto ricorso, articolando i motivi di seguito indicati.
2.1. Con il primo motivo si deduce vizio della motivazione in ordine alla integrazione dell’elemento soggettivo del reato di peculato d’uso, per essersi la Corte di appello basata su mere presunzioni circa l’inverosimiglianza della giustificazione addotta dall’imputata di non essersi accorta dello scambio del cellulare di servizio con altro cellulare del proprio coniuge nel periodo in cui quest’ultimo risiedeva in Marocco. Si censura la illogicità delle conclusioni cui è pervenuta la sentenza impugnata sebbene fosse stato dimostrato che i telefoni oggetto dello scambio erano identici e che il telefono di servizio veniva utilizzato dall’imputata solo per effettuare chiamate e non per riceverle.
2.2. Con il secondo motivo si deduce vizio della motivazione in merito alla mancata concessione della circostanza attenuante di cui all’art.62, co.1, n.6 cod. pen dell’integrale risarcimento del danno avendo l’imputata provveduto a rimborsare l’intero importo delle telefonate abusive alla Rai prima del giudizio. 2.3 Con il terzo motivo si deduce vizio di motivazione in merito al trattamento sanzionatorio non essendo stato applicato il minimo della pena e conseguentemente non essendo stata accolta la richiesta di applicare la pena pecuniaria sostitutiva ex art. 53 della L. 689/1981.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è inammissibile.
La ricorrente, pur adducendo i vizi di illogicità e contraddittorietà della motivazione, ha in realtà riproposto dinanzi a questa Corte le medesime doglianze già fatte oggetto dei motivi di appello, censurando le argomentazioni della Corte territoriale fornendo soltanto una diversa chiave di lettura delle risultanze processuali, ma senza riuscire ad evidenziare concreti vizi logici della motivazione, finendo così con il sollecitare da parte di questa Corte una non consentita rivalutazione del merito in un senso ritenuto più plausibile di quello prescelto dai Giudici di merito.
Nella motivazione della sentenza di primo e secondo grado si rende ragione con argomenti logici ineccepibili della ritenuta non verosimiglianza della versione difensiva dello scambio inconsapevole tra il proprio telefono di ufficio e quello privato del coniuge che lo ha poi utilizzato dal Marocco per effettuare chiamate internazionali mentre l’imputata si trovava in Italia.
I giudici di merito hanno valorizzato il dato temporale dei quattro mesi di utilizzo indebito del cellulare “scambiato” da parte del coniuge senza che la imputata se ne avvedesse, insieme alla interruzione dell’uso abusivo intervenuta solo dopo la denuncia dell’Amministrazione Rai per escludere la possibilità di un errore, reso ancora meno plausibile dalla peculiarità del bene scambiato, in ragione della differente numerazione telefonica e delle ulteriori implicazioni che ne derivano.
Contrariamente a quanto dedotto dalla ricorrente l’affermazione di responsabilità non è stata basata su un mero giudizio di verosimiglianza, ma all’opposto sul dato certo ed obiettivo dell’utilizzo del telefono da parte del coniuge che viveva in Marocco e sull’inverosimiglianza della giustificazione addotta perché ritenuta non credibile.
La motivazione del provvedimento impugnato, valutato insieme all’impianto motivazionale della sentenza di primo grado, trattandosi di doppia conforme, non presenta profili di illogicità o contraddittorietà, ma fornisce una spiegazione coerente delle risultanze processuali rispetto alle conclusioni cui si perviene nell’affermazione di responsabilità, apparendo piuttosto labili le censure articolate nei motivi di ricorso perché reiterative di quelle di mero fatto già affrontate adeguatamente dalla Corte di appello con motivazione esaustiva e priva di contraddizioni, sulla base di valutazioni non meramente congetturali ma sorrette da dati obiettivi, che la difesa ha vanamente cercato di ridimensionare con ricostruzione alternative destituite di fondamento.
2. Anche gli altri motivi sulla pena e sul mancato riconoscimento della circostanza attenuante del risarcimento integrale del danno sono ugualmente inammissibili.
Quanto alla mancata applicazione dell’attenuante dell’art.62, n.6 cod. pen si deve rilevare che né nei motivi di appello e né in sede di discussione nel giudizio di appello risulta che sia stata avanzata una specifica richiesta in tal senso dalla ricorrente.
Per costante giurisprudenza di questa Corte il mancato esercizio del potere-dovere del giudice di appello di applicare d’ufficio una o più circostanze attenuanti, non accompagnato da alcuna motivazione, non può costituire motivo di ricorso in cassazione per violazione di legge o difetto di motivazione, qualora l’imputato, nell’atto di appello o almeno in sede di conclusioni del giudizio di appello, non abbia formulato una richiesta specifica, con preciso riferimento a dati di fatto astrattamente idonei all’accoglimento della stessa, rispetto alla quale il giudice debba confrontarsi con la redazione di una puntuale motivazione.
In sede di appello risulta che la ricorrente si è limitata ad invocare l’applicazione del minimo della pena, mentre nessuna richiesta è stata avanzata con riguardo al mancato riconoscimento della circostanza attenuante prevista dall’art. 62, n.6 cod. pen.
Pertanto la relativa doglianza non può essere dedotta per la prima volta davanti alla Corte di Cassazione, trattandosi di una violazione di legge in cui è incorso il giudice di primo grado ma che non è stata dedotta, come era possibile, nei motivi di appello e che deve pertanto ritenersi tardivamente dedotta in sede di legittimità (Sez. 3, n. 10085 del 21/11/2019, Rv. 279063).
3. Quanto al terzo motivo sulla pena, contrariamente a quanto dedotto, il giudice dell’appello ha fornito adeguata risposta al censurato diniego del minimo edittale, avendo valorizzato nel rispetto dei criteri di cui all’art. 133 cod. pen., oltre alla intensità del dolo, la gravità oggettiva del fatto desunta dalla durata dell’abuso del telefono protrattosi per quattro mesi e dai costi delle telefonate internazionali. Del resto deve essere qui ribadito che «La graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, che la esercita, così come per fissare la pena base, in aderenza ai principi enunciati negli artt. 132 e 133 cod. pen.; ne discende che è inammissibile la censura che, nel giudizio di cassazione, miri ad una nuova valutazione della congruità della pena la cui determinazione non sia frutto di mero arbitrio o di ragionamento illogico e sia sorretta da sufficiente motivazione» (Sez. 5, n. 5582 del 30/09/2013, Ferrano, Rv. 259142), requisiti evidentemente rispettati nel caso in esame.
4. In relazione alla richiesta di declaratoria della prescrizione avanzata dalla difesa in sede di discussione si deve rilevare che l’inammissibilità del ricorso per cassazione (nella specie, per l’aspecificità delle deduzioni) preclude la possibilità sia di far valere sia di rilevare di ufficio, ex art. 129 cod. proc. pen., l’estinzione del reato per prescrizione maturata nelle more del giudizio di legittimità e che anche la manifesta infondatezza rientra fra le cause di inammissibilità intrinseche al ricorso che producono una mera apparenza dell’atto di impugnazione, per cui un ricorso manifestamente infondato non può consentire una dichiarazione di non punibilità derivante dal decorso del tempo (Sez. U, n. 23428 del 22/03/2005, Bracale, Rv. 231164).
5. Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna della ricorrente, oltre che al pagamento delle spese del procedimento, anche a versare una somma, che si ritiene congruo determinare in tremila Euro.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende.