In vigenza delle “vecchie” lire,  Tizio sottoscrive un contratto preliminare con una società per l’acquisto di una casa, corrispondendo L. 50.000.000 e quindi paga ulteriori L. 80.000.000 in ristrutturazione.

La società viene poi dichiarata fallita, con risoluzione di detto contratto.

L’immobile è così messo all’asta ed aggiudicato a Caio.

Evidentemente mal tollerando di avere investito un notevole patrimonio per un bene diventato poi di terzi, Tizio avvicina quindi l’aggiudicatario (Caio) e gli rivolge la seguente frase: «Mi devi dare la casa, altrimenti quanto prima ti succede qualcosa di grave a te e a tuo figlio».

Caio non accoglie tale “invito” e su indicazione del Giudice Delegato, denuncia i fatti all’Autorità giudiziaria.

In primo grado viene ravvisata la tentata estorsione, ma in appello la sentenza è di condanna di Tizio per il diverso (e più mite) reato di tentata violenza privata ai danni di Caio.

Avverso tale ultima pronuncia Tizio propone ricorso in Cassazione e lamenta il travisamento della prova, ritenendo di “non avere influenzato in modo apprezzabile la capacità di autodeterminazione della vittima e di non aver prodotto un evento significativo”.

Con la sentenza n. 26218, depositata oggi 17 settembre 2020 (in calce), la quinta sezione penale della Corte di Cassazione dichiara inammissibile il ricorso dell’imputato.

Il suddetto primo motivo di impugnazione viene ritenuto infondato in quanto, trattandosi di delitto tentato, non è ravvisabile alcun evento, essendo peraltro la presentazione della denuncia su sollecitazione del Giudice delegato irrilevante ed inidonea ad escludere la ravvisata fattispecie tentata.

Infondato è altresì  il secondo motivo, col quale si sostiene l’intervenuta prescrizione del reato.

Alla pronuncia di inammissibilità del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di un ulteriore importo  in favore della Cassa delle ammende.


Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 20 luglio – 17 settembre 2020, n. 26218
Presidente Catena – Relatore Borrelli

Ritenuto in fatto

1. La sentenza impugnata è stata emessa il 12 marzo 2019 dalla Corte di appello di Palermo, che ha riformato la decisione con cui il Tribunale di Sciacca aveva condannato An. Be. per tentata estorsione ai danni di Al. e Gi. Pr., minacciati per costringerli a rivendergli l’appartamento che Gi. Pr. aveva acquistato ad un’asta presso il Tribunale di Sciacca (la frase attribuita all’imputato è «mi devi dare la casa, altrimenti quanto prima ti succede qualcosa di grave a te e a tuo figlio», così la sentenza di primo grado); tale appartamento era stato oggetto di un contratto preliminare tra la Safra Costruzioni s.r.l. e l’imputato (per cui Be. aveva pagato 50 milioni di lire, oltre ad aver speso 80 milioni per la ristrutturazione), che era stato poi risolto dal curatore dopo che la Safra era stata dichiarata fallita. La riforma in appello è consistita nella riqualificazione del reato in tentata violenza privata, con conseguente rimodulazione in mitius del trattamento sanzionatorio.
2. Ricorre avverso detta sentenza il difensore di fiducia dell’imputato, formulando due motivi.
2.1. Il primo motivo di ricorso denunzia vizio di motivazione sub specie di travisamento della prova. Citando un precedente di questa sezione, il ricorrente assume che la frase pronunziata nei confronti del Pr. sarebbe inidonea a coartare la volontà della persona offesa, giacché non ne aveva influenzato in modo apprezzabile la capacità di autodeterminazione, né aveva prodotto un evento significativo, con conseguente esclusione della materialità del fatto. A comprova di ciò, il ricorrente rappresenta che la persona offesa aveva sporto denunzia solo a seguito di sollecitazione del Giudice delegato.
2.2. Il secondo motivo di ricorso postula la maturazione del termine prescrizionale.
3. Il Procuratore generale, nelle sue conclusioni scritte ex art. 83, comma 12-ter D.L. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con modifiche con L. 24 aprile 2020, n. 27 , ha denunziato l’inammissibilità del ricorso, sostenendo, in particolare, che:
– il primo motivo di ricorso è generico, aspecifico e manifestamente infondato perché la Corte di merito ha ampiamente argomentato circa le ragioni della diversa qualificazione giuridica attribuita al fatto, mentre le doglianze della parte si limitano ad una censura generica e versata in fatto;
– la prescrizione non sarebbe maturata, dovendo tenersi conto anche della recidiva, ancorché ritenuta subvalente (rectius equivalente) rispetto alle circostanze attenuanti generiche.
4. Il 14 luglio 2020, l’Avv. Antonino Augello ha trasmesso conclusioni scritte ex art. 83, comma 12-ter cit., sostenendo che la frase attribuita all’imputato era assolutamente inidonea a limitare la libertà di movimento o ad influenzare il processo formativo della volontà della persona offesa ed ha ribadito che il reato ritenuto dai giudici di merito sarebbe prescritto, data la neutralità della recidiva, siccome ritenuta subvalente (citando, a quest’ultimo proposito, Sezioni Unite n. 20808 del 2019).

Considerato in diritto

Il ricorso è inammissibile.
1. Il primo motivo di ricorso è manifestamente infondato e generico.
In primo luogo, il ricorrente – asserendo di non avere influenzato in modo apprezzabile la capacità di autodeterminazione della vittima e di non aver prodotto un evento significativo – trascura di considerare che la fattispecie ritenuta dalla Corte di appello è una tentata violenza privata, in cui l’evento oggetto della costrizione nei confronti della vittima è fuori dal paradigma della fattispecie, proprio perché tentata. Per il resto, la censura appare generica quanto al mancato vulnus alla capacità di autodeterminazione del soggetto, dal momento che la circostanza che Al. Pr. abbia presentato denunzia su consiglio del Giudice delegato non significa che la minaccia subita – «Mi devi dare la casa, altrimenti quanto prima ti succede qualcosa di grave a te e a tuo figlio» – non fosse idonea a costringerlo ad assecondare le pressioni provenienti dall’imputato.
Non è pertinente, infine, la citazione giurisprudenziale che si legge nel ricorso (Sez. 5, n. 10360 del 4.2.19), giacché, nella specie, la Corte di cassazione aveva escluso la sussistenza del reato di violenza privata – sulla sola scorta della mancanza di un’apprezzabile vulnus alla capacità di autodeterminazione della persona offesa e dell’assenza di un quid ulteriore cui l’azione violenta era teso – in relazione ad un fatto completamente diverso, vale a dire un’azione, durata tre o quattro secondi, in cui l’imputato aveva separato due manifestanti e che si era risolta, appunto, in tale separazione.
Nel nostro caso, invece, vi è stata una minaccia non già fine a se stessa, ma diretta ad ottenere che la vittima compisse, in virtù della pressione subita, un’azione come frutto della coartazione, vale a dire quella della rivendita dell’immobile all’imputato.
2. Il secondo motivo di ricorso – che postula la maturazione del termine prescrizionale – è manifestamente infondato.
In primo luogo si sottolinea che il ricorso è, sul punto, assolutamente generico, laddove non individua quando l’invocata prescrizione sarebbe maturata; ciò rileva a fortiori laddove, data l’inammissibilità dell’altro motivo di ricorso, intanto la prescrizione avrebbe rilievo, in quanto maturata prima della pronunzia della sentenza di appello.
Ad ogni buon conto il Collegio ritiene che la prescrizione, ad oggi, non sia ancora maturata.
Il termine prescrizionale massimo è, infatti, di dieci anni, ottenuto aumentando di due terzi quello di sei anni di cui all’art. 157 comma, 1 cod. pen. (cui occorre fare riferimento per la determinazione del termine ordinario, dato che il delitto di tentata violenza privata prevede una pena che si colloca al di sotto del tetto minimo di sei anni). L’aumento di due terzi per le interruzioni è, infatti, collegato al riconoscimento, in capo all’imputato, della recidiva reiterata, il che impone l’applicazione del secondo comma dell’art. 161 cod. proc. pen.
Non coglie nel segno l’argomentazione che il ricorrente ha speso nelle conclusioni scritte ex art. 83, comma 12-ter D.L. 17 marzo 2020, n. 18, conv. con modifiche con I. 24 aprile 2020, n. 27, quando ha sostenuto che la recidiva non andrebbe considerata, in quanto reputata subvalente dai giudici di merito. Tale dato, infatti, non corrisponde alla realtà processuale, laddove la recidiva è stata ritenuta solo equivalente alle attenuanti; donde non trova applicazione il dictum delle evocate Sezioni Unite Schettino, circa la neutralizzazione degli effetti secondari della recidiva – ivi compreso quello concernente la determinazione del tempo necessario a prescrivere – quando quest’ultima sia reputata minusvalente rispetto alle attenuanti (Sez. U, n. 20808 del 25/10/2018, dep. 2019, Rv. 275319).
3. All’inammissibilità del ricorso consegue la condanna della parte ricorrente, ai sensi dell’art.616 cod. proc. pen. (come modificato ex. I. 23 giugno 2017, n. 103), al pagamento delle spese del procedimento e al versamento della somma di Euro 3.000,00 in favore della Cassa delle ammende, così equitativamente determinata in relazione ai motivi di ricorso che inducono a ritenere la parte in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte cost. 13/6/2000 n.186).

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle ammende.